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Aci e Galatea
L'Etna con il suo prolungato pennacchio di fumo e di fuoco non lo spaventava. Viveva in simbiosi col monte che governava dall'alto del suo possente sito la terra di Trinacria. Il padre suo Fauno e la diletta madre, la ninfa Simete, l'avaveano allevato in quei luoghi, ove il fanciullo Aci vagava libero tra il verde fiorente dei prati assieme al suo numeroso gregge. Era solito sedersi sulla nuda pietra con il mento tra le mani e mirare il paesaggio lontano, che sembrava concludersi a mare, formando un tutt'uno col cielo. Raramente un viandante o altri pastori giungevano in quel luogo. Il latrare dei cani di guardia alle pecore ne annunciava l'eventuale prossimo arrivo. Prima compariva un puntino lontano che s'avvicinava lentamente per l'erta e stancante salita, per poi tramutarsi in essere umano e giungere finalmente al cospetto del giovane pastore. Bastava un grido od uno sguardo, perchè i cani tacessero, per subito dopo acccogliere con insistenti scodinzolamenti l'ospite. S'agguattavano calmi, ricadendo nel loro usuale letargo quotidiano. Aci salutava con gioia il pellgrino. E s'era l'ora del suo frugale pranzo, fatto di pane e formaggio, spartiva con l'inaspettato ospite quel poco che aveva. Gli capitava spesso d'incontrare i Ciclopi che dimoravano nei pressi della zona abituale del suo pascolo. Abitavano questi esseri dal corpo spropositato in alcune caverne più a monte. Anch'essi vagavano per le ppendici dell'Etna per pascolare le loro greggi. Non c'erano degli intensi rapporti umani tra Aci e quella razza strana di uomini. Soltanto qualche cenno di saluto, e basta. Il più restio di tutti si mostrava Polifemo, con cui più volte Aci era venuto a diverbio per l'invadenza del Ciclope, che col suo gregge pretendeva l'esclusività del pascolo. Aci con fare tranquillo, com'era nella sua indole, evitava il peggio, scendendo più a valle. Per fortuna del pastorello, questi soprusi non erano fatti costanti, ma infrequenti. Il pastorello era divenuto, oramai, un bellissimo giovane dagli occhi cerulei e daai capelli fulvi più del biondo oro, più alto di una spanna dei suoi coetanei e con membra asciutte ed agili. Si sa che l'arsura dell'estate siciliana arrovella prati, monti e sorgenti. Febo col suo cocchio luminoso ridiscende dalle sue lontane orbite celesti per avvicinarsi alla terra, che investe con strenua vigoria coi suoi raggi infuocati fino a rinsecchire erba, arbusti ed ogni pianta, che prima vividi e verdi allietavano la natura di cui godeva l'occhio dell'uomo sensibile. La mancanza di pascolo a valle aveva costretto il giovane Aci a salire con il suo gregge verso la vetta dell'Etna, che era, poi, la più antica bocca di fuoco da cui era solito il vulcano vomitare lava, cenere e lapilli. Era una specie di transumanza obbligata dalle condizioni meteorologiche avverse per la pesantissima calura, che consentiva, ad elevate altezze, di scoprirvi pascoli scarsi, giammai allettanti, appena sufficenti alla sopravvivenza del gregge. L'erta e pietrosa salita aveva stancato alquanto il giovane Aci che, vista una fonte d'acqua limpida e fresca, vi s'arrestò per dissetarsi. Mentre beveva gli parve d'intravedere un volto bianco d'una giovanissima fanciulla riflesso nell'acqua. Girò la testa alla ricerca del volto equoreo: non c'era nessuno, era solo. Riprovò a guardare nel fondo di quelle acque, che copiose affluivano alla fonte e vi rivide la stessa figura sorridente e gaia, che con lo sguardo quasi ammiccante s'accarezzava i lunghi capelli. Le labbra delicate, ma dal colore del fuoco, mostravano un sorriso lieve. Ed Aci di quella bocca disegnata da mano divina percepiva a mala pena la perfetta forma, ma giammai sfumature e contorni per il fastidioso sciabordio delle acque. Rigirò la testa convinto ch'avesse alla sue spalle quella giovane figura d'intenso umano sentore, ma anche questa volta non vide nessuno. com'era possibile questo stranissimo sortilegio. "Si tratta, forse, dell'adescamento di qualche terribile maga, come l'odissea Circe, di cui Ulisse e i suoi compagni avevano sperimentato la sua potente malia?", pemsò il giovane ed inesperto pastore, figlio di Fauno. Guardò per l'ultima volta nella fonte per rivedervi quell'immmagine soave, piena di fascino, ma era sparita. Aci raccolse il bastone e la sua sacca che aveva poggiato ad un albero ed aspettò che le pecore bevessero a sazietà. Quindi, s'avviò col suo gregge verso la vallata. Quella giovane figura di donna tormentava con insistenza inusuale i suoi pensieri; la sua mente non riusciva a cancellarne il sorriso, gli splendidi occhi, quei capelli lunghi e corvini. Il dio Hypnos, quella notte, si dimenticò di Aci, che restò con la sua memoria a mirare quel volto. Di mattino presto, quando ancora Apollo non aveva completato il suo lungo e perenne cammino coi suoi cavalli alati, il giovane s'alzò dal suo giaciglio con l'intenzione di fare ritorno alla fonte fatata. Non era ancora giorno, ma già Aci e le sue pecore s'avviavano verso la parte alta del Monte. Prima di giungere alla fonte, vide a mezza costa un piccolo gregge in apparente abbandono. Nessuno sembrava che vi badasse. Vi s'avvicinò guardingo:non v'ea nessuno. Gridò ai quattro venti, nella speranza che il pastore del gregge l'ascoltasse. Non ebbe risposta, soltanto dopo qualche minuto sentì tossire. Si girò, ed ecco apparirgli una fanciulla scalza e con una veste dimessa, che lasciava ignude le sue ben modellate gambe. Il portamento regale la faceva apparire somigliante alla dea della caccia, anche se priva di freccie e di faretra. L'era dappresso un agnellino, che la seguiva come un bambino tiene a fatica il passo celere della madre. Poi, ad un tratto, come trattenuta da un'invisibile mano arrestò i suoi passi. L'imitò all'istante il lanuto animale. Aci non potè scoprire subito i lineamenti del volto della giovine per l'insistenza dei raggi solari, che gli abbagliavano la vista. S'avviò con lena verso la fanciulla, che restava ferma come una statua su un piedistallo. Ella appariva, ora, al giovane quale la regina di quei luoghi etnei. Quando, finalmente, vi fu vicino, s'arresto di colpo. Quel volto intravisto alla fonte era, ora, lì davanti a lui. All'improvviso le gambe di Aci si rifiutarono di procedere oltre, mentre la nebbia gli offuscava i pensieri. Non una parola gli veniva alla mente, non un suono emetteva la sua bocca per la secchezza delle sue fauci. Toccò alla giovane rompere il ghiaccio che governava quell'incontro. Con fare sbarazzino s'avicino ad Aci, che continuava a restare immobile, come un albero secolare per le sue possenti e profonde radici. "Sono Galatea", iniziò la fanciulla, "figlia di Nereo e della madre mia Doride. Ieri, t'ho visto alla fonte dov'io, per natura divina, dimoro". Quelle parole scossero Aci dal suo inusitato torpore. Finalmente, il pastorello ritrovò la voce e la mente i pensieri. Rispose subitaneo il giovine: "Son io Aci, figlio del divino Fauno e della ninfa Simite. Ieri t'ho vista spechiata in una fonte, mentre il tuo corpo non c'era. Fu, forse, un sortilegio?" Galatea sorrise, poi, aggiunse: "Io ero lì, perchè quello è il mio ninfeo, mentre qui mi preoccupo del mio gregge". I cuori d'entrambi ad ogni sguardo, ad ogni parola s'acceleravano di passione, che ognuno frenava per celare i suoi reali pensieri". "Aci, amico mio", disse ad un punto la giovane ninfa, "sai chi abita più in alto entro atre e fumose caverne?" "Si, lo so", rispose il giovane Aci, eppoi continuò, "i Ciclopi. A mepare che tra tutti soltanto uno è tristo, Polifemo, che per bruttezza eccede le arpie e per malignità nessuno gli è pari, nemmeno Ade, il terribile padrone degli inferi", concluse convinto. "Me, meschina", l'interruppe Galatea, "è Polifemo il mio pretendente. Ben ha fatto l'Odisseo a cecarlo. Ma inutile fu l'agguato dell'astuto Itacese, perchè il padre suo, il potente Poseidone, dio del mare, gli rigenerò quel terribile, unico occhio frontale, ridandogli il senso perduto". La conversazione tra i due non pareva che dovesse avere mai termine. Quindi, si sedettero sotto un largo castagno per ripararsi dal cocente sole. Nessuno badava più al gregge, soltanto i cani, che di tanto in tanto ricacciavano indietro le pecore che s'allontanavano. Di due greggi col trascorrere delle ore se n'era formato uno solo, così anche di Aci e Galatea. Più volte giacquero insieme i due felici amanti, travolti dalla grande passione amorosa. La sera eppoi la notte li trovò abbracciati in un amplesso, che sembrava non dovesse avere mai fine. Al sopraggiungere delle prime luci dell'alba, i cani incominciarono a latrare, come per indicare l'arrivo di qualcuno. Nulla, oramai, interessava Aci e Galatea, se non l'amore. "E' l'amore il grande motore del mondo", ripeteva con costanza Aci alla sua amata. Apollo s'accorse dell'immane pericolo che sovrastava i due amanti e ritrasse con accortezza i suoi luminosi raggi, che, già, incominciavano a dare forma e colore alle cose. La terra ripiombò nel buio della notte. Valse a poco l'espediente di Febo, perchè Zeus gli ordinò, in maniera perentoria, di ridare luce al pianeta. Udirono i due giovani dei sistematici boati che s'avvicinavano con costanza. Aci guardò il cielo limpido del mattino, poi rassicurante disse a Galatea: "E' il Monte, che vomita pietre". Quindi, strinse a sè la ninfa con tutta la forza dei suoi amorosi sentimenti. I boati non accennavano a diminuire, così come i latrati dei cani che, anzi, si facevano sempre più intensi. Poi, tutto ad un tratto si sentì un guaito lamentoso dei cani, ed un'ombra smisurata pararsi davanti ad Aci e Galatea ed oscurare loro il giorno. Era il gigante Polifemo. I due giovani, ancora ignudi, restarono immobili ed ammutoliti. Si strinsero l'uno all'altra, come atto istintivo di reciproca difesa dall'incombente pericolo. Il Ciclope, senza proferire parola, s'avvicinò ad un masso spropositato, inamovibile. Lo sradicò dal terreno, ove era piantato, per porselo su una mano. Quindi, s'avvicinò al povero pastorello tremante, che staccò con violenza dall'amata Galatea. poi s'allontanò, riproponendo il boato dei suoi incredibili passi, per arrestarsi alla fine vicino al gregge. Terribile a vedersi. Polifemo precipitò con tremenda forza il giovane pastore per terra dall'alto della sua mostruosa mole. Poi, con entrambe le sue fetide e mortali mani scaraventò quel masso, ch'egli manovrava come un fuscello, sul corpo inanime dell'infelice Aci, schiacciandolo. Galatea, prima ancora che il Ciclope compisse il tragico sacrilegio, aveva levato alte le sue grida disparate, invocando l'aiuto di tutti gli dei dell'Olimpo e del padre suo Nereo. S'era offerta lei stessa a Polifemo, come unica vittima sacrificale, invocando pietà per il suo Aci. Ma per quell'essere, l'unica pietà conosciuta era la sua terribile vendetta. Il corpo di Aci o meglio la polpa sanguigna rimasta incominciò a colare sangue, che man mano che penetrava nella roccia, la scavava. Il rosso flusso, anzichè diminuire, continuava ad ingrossarsi, come un torrente in piena. L'inesauribile sangue di Aci scendeva giù dal monte Etna per avviarsi verso il mare, ove giunse dopo lungo e tortuoso cammino. Il mare, raggiunto dal fiumiciattolo, si colorò di rosso vermiglio. Per secoli e secoli quelle acque marine restarono disabitate. Tuttora, di mattina, durante le caldi estati, qualcuno afferma di vedere una giovane fanciulla ignuda, dal volto cereo, nuotare in quelle acquee e gridare di tanto in tanto con voce rotta da un antico pianto: "Aci, amor mio!". Altri giurano che, alla sorgente del fiumicello, hanno visto due giovani amanti vagare abbracciati per, poi, scomparire nelle fredde acquee dell'Aci. Reminescenze poetiche
Fra questi fabulosi e vani amori
Nè Polifemo in sul lito marino
Superba ancor si vede
Sei tu l'isola bella, a le cui rive
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