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Palikos
"Palikos, Palikos!", gridava accorato il vento freddo della tetra foresta, "figlio della sventura, non t'allontanare dalla montagna. La tua pazzia potrebbe contagiare il mondo con il tuo respiro. Le genti ti hanno affidato a me perchè tu non aggiunga male al male, morte a morte". Un terrificante grido si levò fino alle cime della montagna, squarciando le persistenti nubi che l'avvolgevano. All'improvviso apparve un volto maculato di piaghe, col labbro superiore e la fronte fracassati dal terribile morbo. Sono libero, sono libero", intonava dall'alto con voce stridula e guttturale il figlio di Cronos. "La tua libertà sarà la morte di essa. Numerosi sacrifici umani verrano immolati all'altare del padre tuo", rispondeva terrorizzato il vento del Sud. Allora il folle schiacciò col piede la montagna che scomparve con un grande boato nelle cavità terrestri, da cui venne fuori un mare d'acqua, che ben presto si tramutò in un fiume, che gli uomini chiamarono Simeto. Dall'alto del cielo quella faccia lebbrosa dagli occhi fiammeggianti ordinava a tutte le molecole dell'acqua di disporsi in ordine militare e d'iniziare subito l'invasione dei territori circostanti. L'acqua, oramai, assoggettata totalmente al suo padrone, si dipartì dal suo letto in mille rigagnoli infuriati, indirizzandosi contro tutte le direzioni. Ovunque la fiumana passasse, la morte piantava il suo funesto vessillo, L'acqua raggiunse pianure, montagne, città, togliendo ad ogni essere l'umano respiro. Atena assisteva sconvolta ed incapace d'arrestare tanta rovina, mentre Palikos continuava imperterrito, nella sua immensa follia, a vomitare su tutte le contrade acqua ed, ora, anche fuoco. Parsifal, incurante della dea, altezzoso sfrecciava coi suoi destrieri ovunque, trovando anche nuuovi alleati tra alcuni dei. Sembrava che lo stesso Olimpo stesse per cadere in mano loro, quando la dea della sapienza, ifuriata e sprezzante del pericolo, decise d'abbandonare il monte, oramai assediato, per portare aiuto ai ribelli, resistenti alla pervicace di Palikos. Dopo un lungo peregrinare, giunse in un casolare ove, lassa per il lungo viaggio, decise di passarvi la notte. Lo trovò vuoto e, pressata dai pensieri, si buttò sopra l'unico letto e vi s'addormentò. Era da qualche ora che la divina dormiva, quando fu destata di soprassalto dalle mani rudi e forti d'un uomo alto e vigoroso che, accortosi che il suo giaciglio era occupato, gridò con veemenza, scuotendola: "Chi c'è nel mio letto?" La poveretta, impaurita da quella cavernosa voce e dagli scossoni ricevuti, non riuscì ad aprire bocca e s'aggomitolò nelle coperte, come una bambina. L'uomo cercò una lucerna a petrolio che per poco non finiva a terra, spostata dalla sua stessa mano, l'accese dopo non poche imprecazioni e la puntò contro la divina. Di primo acchitto vide soltanto i fulvi capelli della dea sparsi sul fetido cuscino, poi intravide nella penombra della luce della lanterna un delicato volto di donna e delle affusolate mani bianche. Quella ragazza gli fece venire alla mente un viaggio effettuato tanti anni prima a Sikane, una ridente cittadina del Sud ove aveva conosciuto Elima, l'unico amore della sua solitaria vita. Erano trascorsi oramai trent'anni da quel tempo. Allora ne aveva venticinque. Si sentì vecchio, ma sempre innamorato di quella leggiadra fanciulla cui per la sua timidezza non le confessò mai il suo amore. Sviati dalla mente questi dolci ed amari ricordi, s'avvicinò lentamente al capezzale della giovane dea. Stese la sua ruvida mano verso di lei e dopo averle sfiorato i capelli, con voce suadente e quasi paterna le disse: "Perchè dormi nel mio letto, dolce fanciulla?". La dea, alle parole dell'uomo dai folti baffi e dalla capigliatura neri, rispose sommessamente: "Ero stanca. Ho percorso più di mille leghe". L'uomo visibilmente imbarazzato cercava nel suo lessico parole adatte per continuare la conversazione, ma non ne trovava. Infine, si piegò verso la ragazza e, rimboccandole amorevolmente le coperte le augurò la buona notte. Si sdraiò su un fetido pagliericcio, posto a fianco del letto, ove era solito, invece, sistemare i vestiti, e vi s'addormentò. Russava maledettamente; sembrava il Mungibeddu in eruzione. La povera dea non riusciva più a prendere sonno. Ci vollero parecchie giravolte prima di chiudere i suoi azzurrini occhi. Gli dei dell'Olimpo, riunitisi in gran consesso, dopo un estenuante dibattito stabilirono di ribellarsi e di seguire Atena nella battaglia contro i titani del male. Zeus ed Era misero al mondo subito una larga schiera di Ercole per sostenere le nuove fatiche. Cerere s'incaricò di ringiovanire il boscaiolo; Cupido di colpire coi suoi dardi amorosi il cuore della dea e dell'anziano siciliano; Vulcano ed Eolo di destarli coi loro fulmini, tuoni, acqua, e vento. I due potenziali amanti all'infuriare di quel pauroso uragano si svegliarono. Minerva osservava lo scatenarsi degli elementi attraverso gli opachi vetri della finestra. Euforbo riaccese il lume. La dea restò fulmineamente abbagliata dalla bellezza e della grazia del giovane Euforbo. Lo ricordava diversamente: anziano, quasi decadente, con gli occhi spenti. Incolpò la stanchezza per l'errato ricordo d'Euforbo. Un fremito s'impossessò, allora, del suo essere di donna. Ad Euforbo, invece, incominciò ad offuscarsi la vista. Una forza irresistibile lo spingeva verso di lei. Posò il lune sul vecchio tavolo, appoggiato a muro per una gamba sgangherata, e s'indirizzò alla volta della dea. Ella stava seduta sul letto con le braccia aperte in attesa di poter respirare l'alito di Euforbo. Lo strinse forte a se, lo baciò più volte. Poi, s'abbandonò tra le braccia del giovane. Pallade, per nove mesi, portò nel suo seno il frutto del suo amore. Verso gli ultimi giorni, raggiante di felicità, si recò su una grande pianura per partorirvi una nidiata di figli, che assieme agli Ercole di Zeus ed Era s'avventarono contro le armate molecolari di Palikos. Cronos, alla vista delle forze eraclito-palladiane, comprese che Palikos era perduto, se non fosse intervenuto a salvarlo. Prese il suo carro e, recatosi laddove il figlio stremato stava combattendo l'ultima battaglia. ormai perduta, lo strappò di forza alla giusta ira dei figli di Euforbo e di Zeus per deporlo, dopo un viaggio di molte leghe attraverso l'aura mediterranea, su una terra, che i posteri chiameranno Trinacria. |